LA VITA - LA MORTE
(al mio diario il fiume di pensieri che devo far uscire)
Sono convinta che il dolore è parte della "fisionomia" dell'uomo. Come gli occhi, il naso... Tutti ce l'abbiamo ma per ognuno ha forme diverse. In questi giorni, vicino alla nostra amica, pensavo a come lo vivevamo tutti, ma tutti con modalità diverse.
Già nei momenti immediatamente successivi, la mia mente si affollava di immagini e parole, parole, tante parole. Mi arrivano in gola, mi pulsavano in testa, mi scorrevano tra le dita.
Tante parole dentro, quanto nessuna fuori.
Osservavo le mie amiche e vedevo come vivevamo in modo diverso la sofferenza. La mia amica Giuli, che aveva un contatto più diretto e quotidiano con Jenny, non è riuscita a stare ferma un attimo, non si è accasciata su una sedia, ma un'energia ed una smania l'ha tenuta impegnata a camminare, camminare, camminare. Mapi col suo modo soave di porsi non ha avuto timore di abbracciare la madre di Jenny e sussurrarle parole di consolazione, mentre Gabry quasi mordeva la sua sigaretta.
Ho visto altri impietriti, distanti; ho visto occhi consumati dalle lacrime; ho visto la rassegnazione e la disperazione.
La morte procura ai vivi le reazioni più disparate. Io, più che mai, ho bisogno di vomitare pensieri, parole, emozioni. Non è importante condividerle, non sono scritte perché siano lette, spesso neanche io leggo più ciò che scrivo, ma - come un abito vecchio, che mi ricorda un pezzo di me - voglio tenerle nel cassetto, sapere che ci sono.
In questi giorni ho provato sollievo nel dormire, ho capito quando si dice che ci si rifugia nella droga per non affrontare la realtà. Poi al risveglio, il primo pensiero è: "ho solo dormito, è tutto vero, da dove comincio?" Cosa posso fare, io così piccola, davanti a questa cosa immodificabile?
Nulla, assolutamente nulla.
Torna così il pensiero della morte, realtà di cui conosciamo solo "la porta".
Noi sappiamo che la nostra vita è un cammino, fino ad una porta, conosciamo quanto è scura e pesante, sappiamo che si è aperta per tante persone che abbiamo amato, ma com'è la realtà dietro quella porta non possiamo che immaginare.
Per noi cristiani - forse i credenti più tiepidi di tutte le religioni - dovrebbe confortarci l'idea che comincia una nuova vita, ma che vita? Ci sarà modo di sentire, provare?
Diciamo "ci vede da lassù", "lei non vuole le nostre lacrime", ma sono tutte sovrastrutture che ci creiamo per consolarci. Spesso ripeto ai miei figli che la cosa più difficile da fare nella vita, e che è la vera misura della crescita, è "scegliere". La vita è piena di bivi. Crediamo di volere la libertà di scegliere, ma spesso non è così, vorremmo che altri lo facessero per noi. Ed ecco che anche in questo caso, come pecore di un gregge, ci accodiamo per semplicità, e cerchiamo di pensare ad uno stato di beatitudine incomprensibilmente diverso, un essere-non essere che comunque sia qualcosa di buono.
Un attimo dopo questi "voli" abbassiamo lo sguardo a terra e proviamo il sapore amaro del vuoto.
Leggo "non ti dimenticheremo mai"... Ma cosa vuol dire? È ovvio che dimenticare non si può, allora è un modo per dire "vivremo facendo finta che tu sia viva"?
Questo, per quanto possibile, lo facciamo tutti, per difenderci, per ingannarci.
Ora io, e tutti gli amici, alleviamo la sofferenza, ubriacandoci di quotidianità, perché lei non viveva nelle nostre case, e non vederla accanto, non è una sofferenza, perché continuiamo la nostra vita pensando che lei stia vivendo la sua, questo fino alla prossima occasione in cui avremmo dovuto incontrarla.
Mariella ha detto: "sarà dura al prossimo direttivo dell'associazione!" Certo, li, non potrò più ingannarmi, vedrò una sedia vuota e dovrò fare i conti col sapore del vuoto "per sempre".
Chi sono costretti a dimenarsi - come un naufraghi caduti in mare, che a tratti si agitano per rimanere a galla, a momenti si vogliono abbandonare alla propria sorte, in altri ancora invidiano chi, prima di loro, sono scomparsi - sono i cari più stretti, che girano in casa, vedono i suoi oggetti, le cose sistemate da lei, scelte da lei: il marito, i genitori, il fratello.
Gli zombie, i morti (dentro) viventi, non sono una creazione della fantasia cinematografica, ma i sopravvissuti ad un rapporto d'amore interrotto dalla morte dell'amato.
Quando ho letto un titolo di giornale che diceva "il dolore della collega Landi" l'ho trovato così profondamente irriverente, che ho sentito il bisogno di chiedere scusa alla madre, al marito, alle amiche più care.
Il dolore ha una scala di posizioni, come cerchi concentri che si allargano sempre più fino a sparire. Non si può certo misurare, ma sicuramente è proporzionato al rapporto di vicinanza. Cosa prova un genitore costretto a vivere l'innaturale morte di un figlio è certo una sensazione di castigo immane.
Noi che restiamo, soffriamo la mancanza, l'assenza, il vuoto, per due motivi:
il primo è certamente per egoismo, lo stesso, in proporzione, che si prova per un furto. Ci viene tolto qualcosa di cui non possiamo e vogliamo fare a meno;
il secondo è per quello che non sappiamo della morte. Non sappiamo com'è, possiamo solo immaginarla, decodificarla con i nostri riferimenti, al pari di come immaginiamo gli extraterrestri. Così pensiamo a ciò di cui non godrà più chi non c'è, ma lo immaginiamo con i nostri parametri, pensando che chi è morto possa soffrire la privazione della vita come chi è malato o chi è incarcerato, cioè il deprivato consapevole di ciò che non ha. Invece la morte è un'altra realtà a noi incomprensibile, ma certamente diversa dalla vita. Ci fa male la morte dei nostri cari, per la privazione a cui siamo costretti ad adattarci; ci fa male il pensiero della nostra perché conosciamo bene la vita è sappiamo cosa non avremmo più (io per esempio, penso al sole che non vedrò più, con i suoi colori del tramonto, agli abbracci delle persone che amo) ma quando arriva e si spegne la luce, non soffriamo la privazione, se non nel breve momento di consapevolezza di ciò che sta accadendo. Per questo non dobbiamo piangere per chi non c'è, non sa cosa non ha più, ma per noi che dobbiamo vivere col vuoto.
Eppure a tutto ci si adatta. Si impara a convivere con la sofferenza fisica o con la privazione della libertà, il nostro istinto di sopravvivenza ci fa rimarginare tutto, e col tempo tutto diventa più leggero. Se solo fossimo così "furbi" da trarne una preziosa lezione!
Ma siamo esseri stupidi, camminiamo con lo sguardo basso impegnati a guardarci i piedi, a guardare il nostro limite, a pensare in piccolo, a guardare solo il microcosmo delle nostre emozioni.
Ho visto persone stravolgersi davanti ad un oggetto in frantumi, ho visto volti avvelenati e sentito l'aria intossicata da emozioni meschine. Parenti che non si salutano, gente che si odia, coniughi malefici, persone che sparlano... Quante piccinerie velenose che vanno in circolo ed avvelenano il sangue, la linfa dei rapporti!
Ieri, al funerale di Jenny, Patrizia, ha detto: "questa notizia mi ha fatto riflettere sulla mia vita, su come corro inutilmente tra tante cose e voglio cambiare".
Bello che abbia riflettuto, ma sono certa, purtroppo, che tra qualche settimana la sua vita sarà di nuovo uguale.
Noi non siamo capaci di grandi impegni, ma meno forti per sconfiggere noi stessi. Sappiamo che nulla cambia se noi non cambiamo, ma pochi sono quelli che sanno davvero cambiare qualcosa.
Se esiste il bene ed il male, il Signore del male con noi ha gioco facile e penso che tutti i giorni si faccia tante risate alle nostre spalle su come sappiamo bene rovinarci la vita.
Ma alla fine, resta sempre il sole della speranza, unico a riscaldare il presente per il domani: la speranza di riuscire a cambiare le cose che non ci piacciono.
In questi giorni diciamo di voler fare qualcosa per Jenny, e certo faremo più di un evento perché sia sottolineata la sua persona, ma io voglio cominciare subito, ed ho già cominciato, a fare piccole cose, che sicuramente sarebbero piaciute anche a lei.
Questo sarà un piccolo regalo per lei: il volermi più bene, prendendomi cura di me per prendermi meglio cura degli altri.